ANGIOLA, MEDICO DI BASE AL TEMPO DEL CORONAVIRUS
Perché il virus se ne infischia del fatto che tu sia un medico con un sacco di persone da curare e accompagnare. E così ho passato il sabato e la domenica a misurarmi la febbre, a lamentarmi tra me e me per la fatica di un lavoro che inevitabilmente mi espone a qualche rischio, a cercare di ignorare (senza riuscirci, come sempre!) le insistenti telefonate di pazienti che della Guardia Medica non ne vogliono proprio sapere e pensano che il medico di base deve sempre essere a loro disposizione. Poi, domenica sera, mentre tiravo le fila della giornata, un pensiero mi ha attraversato l’anima: ma davvero mi importa di essere o non essere contagiata dal Coronavirus? Un pensiero che si è portato via malumore, ansia e fatica.
E così la mia settimana è cominciata davvero con un altro passo. Guanti, mascherina e camice non mi impediscono di aiutare, consigliare, spiegare e mediare in queste ore così difficili. L’Ospedale della mia città è al limite del collasso, i colleghi, e con loro tutto il personale, al limite delle forze. Il minimo che posso fare per dare loro un contributo utile è quello di fare da cuscinetto tra lo smarrimento e il timore dei malati e la presa in cura delle strutture ospedaliere.
Penso a Chiara Lubich e alle sue prime compagne che nell’immediato dopoguerra andavano alle Androne, un’area urbana di Trento concentrato di povertà e malattie, per farsi prossimo con tutti. Rispetto alla loro esperienza, io oggi dispongo di mezzi straordinariamente più adeguati, ma è ancora la motivazione a fare la differenza: vedere Gesù in ogni persona che incontro, che curo, che chiede, che piange o che ha paura.
Arrivo a sera stanca come poche altre volte mi è successo in tanti anni di ambulatorio. Ma sono contenta. Domani si ricomincia.
Angiola